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monografica
Interpretazione del diritto
e bilanciamento tra principi |
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Giorgio Maniaci, Giorgio Pino, Aldo Schiavello
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Presentazione
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La parte monografica del secondo numero
di Diritto e Questioni Pubbliche è dedicata al rapporto tra
interpretazione del diritto e bilanciamento tra principi. Da tempo
ormai la tecnica del bilanciamento tra principi del diritto ha assunto
un ruolo di primo piano nell'ambito delle attività interpretative
delle disposizioni normative, sia legislative che costituzionali.
La centralità di tale tecnica deriva non soltanto dal fatto
che i principi sono l'oggetto (o il risultato) precipuo dell'interpretazione
costituzionale ma anche dalla funzione che i principi del diritto,
non importa se espressi o impliciti, svolgono nell'orientare l'interprete
sia nella scelta tra differenti possibili significati di una medesima
disposizione legislativa, sia nelle attività dirette a colmare
lacune o a risolvere antinomie. Come è noto, nella maggioranza
dei casi le antinomie tra principi del diritto non possono essere
risolte con i tradizionali metodi di risoluzione dei conflitti tra
norme, vale a dire ricorrendo al criterio cronologico, al criterio
gerarchico e al criterio di specialità. Alcuni principi, infatti,
come quelli costituzionali, sono contenuti, esplicitamente o implicitamente,
nel medesimo documento normativo e, dunque, sono pariordinati e coevi,
oltre che - ovviamente - entrambi generali. Allo stesso modo, non
è possibile stabilire alcuna gerarchia o precedenza temporale
tra principi impliciti che costituiscono la ratio di un gruppo di
regole appartenenti ad un settore dell'ordinamento giuridico o che
rappresentano il fondamento o la giustificazione di un intero settore
disciplinare.
In tutti questi casi il conflitto tra differenti principi in competizione
viene, in genere, risolto dall'interprete mediante l'instaurazione
di una gerarchia assiologia, secondo la quale il principio x prevale
sul principio y in relazione al caso z. Ciò ha una conseguenza
importante: che i principi sono, in genere, considerati norme (o condizionali)
defettibili. Si tratterebbe di norme la cui fattispecie o antecedente
non è mai condizione sufficiente della conseguenza normativa
prevista.
In tal senso, i temi dell'interpretazione giuridica e del bilanciamento
sono strettamente intrecciati alla tematica della defettibilità
delle norme, tema ripreso, infatti, da molti dei contributi qui pubblicati.
Juan Carlos Bayón, ad esempio, collega la defettibilità
del ragionamento giuridico al fatto che la nostra conoscenza del diritto
e dei fatti empirici rilevanti è necessariamente incompleta.
L'incompletezza della conoscenza, cioè l'impossibilità
per un interprete (che non abbia un'intelligenza o una memoria soprannaturali)
di tenere conto di tutti gli elementi giuridici (leggi, sentenze,
ecc
) ed empirici rilevanti per giustificare una tesi interpretativa,
rende il ragionamento giuridico defettibile, nel senso che l'insieme
delle premesse normative e fattuali in virtù delle quali un
interprete argomenta che 'Tizio ha il diritto x nell'ordinamento y'
sono suscettibili di essere riviste, qualora si presenti un argomento
idoneo a falsificare o rivedere una delle premesse utilizzate dall'interprete.
Intesa in questo modo, la defettibilità è una dimensione
necessaria del ragionamento giuridico, e non una dimensione contingente
o relativa ad un singolo ordinamento.
In conclusione, due sono le tesi principali sostenute da Bayón
in relazione alla necessaria defettibilità del ragionamento
giuridico.
La prima è che dal fatto che il ragionamento giuridico può
dirsi certamente defettibile non dobbiamo trarre la conclusione secondo
la quale non è possibile alcuna forma di conoscenza giuridica.
Non smettiamo di avere credenze nel campo giuridico, come in ogni
altro campo, perché siamo consapevoli che in futuro ulteriori
argomenti potranno indurci a rivederle. Piuttosto, siamo 'razionalmente
giustificati' nell'assumere l'esistenza di determinati diritti all'interno
di un sistema dato qualora alcune premesse (in termini di leggi, argomenti
interpretativi, principi costituzionali, ecc
) supportano in
modo sufficiente la nostra conclusione interpretativa, sebbene ulteriori
argomenti possano essere individuati in futuro.
La seconda tesi è che il fatto che il ragionamento giuridico
si fonda su premesse non assolute, bensì rivedibili o fallibili,
non rende tale ragionamento non deduttivo. Il modello di inferenza,
dalle premesse alla conclusione, resta deduttivo. Se, tuttavia, le
premesse non sono tutte vere (in un senso forte e assoluto di verità),
bensì soltanto ragionevoli o probabili, se ne dedurrà
che anche la conclusione sarà ragionevole o probabile. Ciò
non implica che il processo di giustificazione di una tesi interpretativa
non abbia carattere deduttivo, perché -contrariamente a quanto
sostenuto dai particolaristi morali e giuridici - qualunque giustificazione
implica, propriamente, la sussunzione di un caso particolare all'interno
di un concetto o di una categoria più generale.
Il saggio di José Juan Moreso è diretto a criticare
l'idea che il bilanciamento tra principi sia un'attività non
suscettibile di alcun controllo razionale (come, ad esempio, quella
di scegliere il vino per una cena), un'attività, cioè,
che dipende da giudizi di valore del tutto soggettivi che non siamo
disposti a generalizzare, cioè ad applicare a casi analoghi.
Da un lato, Moreso riconosce che i principi costituzionali, ad esempio
il principio che tutela la libertà di informazione e quello
che tutela il diritto all'onore, dovrebbero essere ragionevolmente
interpretati come norme defettibili, che necessitano di essere ponderate.
Dall'altro lato, tuttavia, egli ritiene sia possibile risolvere un
conflitto tra principi in relazione ad uno o più casi, costruendo
una regola, risultato del bilanciamento, che imponga un dovere indefettibile,
di modo da consentire la sussunzione di un caso concreto all'interno
della fattispecie astratta prevista dalla norma. Ad esempio, l'interprete
può stabilire che il principio che tutela il diritto all'onore
prevale sul principio che tutela la libertà di informazione
quando (1) le notizie sono false oppure (2) quando non sono di rilevanza
pubblica. Dunque, la norma secondo la quale i media non possono diffondere
notizie nei casi (1) e (2) è, secondo l'autore, indefettibile,
nella misura in cui ogni qual volta si verifica una delle due condizioni
previste dalla norma (la falsità della notizia o la non rilevanza
pubblica di essa) segue, necessariamente, la conseguenza normativa
(vale a dire, la proibizione di diffondere notizie).
In questa ipotesi, l'interprete non avrà individuato tutte
le proprietà rilevanti nel conflitto tra i due principi. Ad
esempio, la regola risultato del bilanciamento non è idonea
a risolvere il caso in cui venga diffusa una notizia che ha rilevanza
pubblica, che è vera ma contiene espressioni ingiuriose. In
ultima analisi, l'autore sostiene che sebbene soltanto in condizioni
epistemiche ideali gli interpreti istituzionali potrebbero individuare
tutte le proprietà rilevanti idonee a offrire una soluzione
coerente per ogni caso di conflitto tra due principi costituzionali,
ciò non vuol dire che i giudici non possano, nelle condizioni
reali in cui si trovano ad argomentare, costruire delle regole di
ponderazione tra principi che siano indefettibili e, dunque, razionalmente
controllabili e giustificabili.
Il saggio di Bruno Celano ha lo scopo di criticare specificamente
alcune delle argomentazioni avanzate da Moreso in favore della possibilità
di concepire le regole che determinano la prevalenza di un principio
costituzionale sull'altro come doveri indefettibili. L'idea di Celano,
infatti, è che sia possibile trasformare i principi costituzionali
da norme defettibili in norme indefettibili, solo se abbiamo a disposizione
ciò che l'autore denomina 'una tesi di rilevanza ultima', cioè
la determinazione dell'universo di tutte le proprietà descrittivamente
e prescrittivamente rilevanti.. Ora, secondo Celano, non soltanto
Moreso non dimostra che questo sia effettivamente possibile, ma l'idea
che un giudice o un interprete disponga ad un certo momento di una
tesi di rilevanza ultima appare decisamente irrealistica. Oltretutto,
anche ammesso che si consideri l'individuazione di tutte le proprietà
rilevanti come un ideale regolativo, dunque un ideale che giudici
e interpreti non possono mai raggiungere ma cui devono sempre tendere,
Moreso non ci dice sulla base di quale criterio possiamo capire se
ci stiamo approssimando all'ideale o allontanando da esso. In ultima
analisi, le argomentazioni di Moreso non sarebbero sufficienti al
fine di dimostrare la possibilità di costruire regole di bilanciamento
tra principi in conflitto che siano indefettibili e, dunque, la possibilità
di operare una sussunzione stabile dei casi particolari all'interno
dell'antecedente della regola suddetta.
Il saggio di Giorgio Maniaci si occupa anch'esso del rapporto esistente
tra bilanciamento e defettibilità, ma dal punto di vista della
teoria di Alexy. In particolare, l'autore sostiene che la teoria di
Alexy è una teoria del bilanciamento di tipo procedurale, particolarista
in senso debole e pragmatica. Procedurale perché Alexy sostiene
che il bilanciamento tra principi del diritto, soprattutto costituzionali,
non soltanto può, ma deve essere il risultato di una procedura
argomentativa razionale. Ciò vuol dire che l'argomentazione
che giustifica il bilanciamento non deve contenere contraddizioni,
non deve fondarsi su premesse empiriche false e deve rispondere in
modo soddisfacente ai dubbi e alle critiche avanzati dagli altri giudici
o interpreti avverso quel determinato bilanciamento.
Particolarista in senso debole perché Alexy riconosce che la
regola che stabilisce una gerarchia assiologica tra due principi è
sempre defettibile, nel senso che non è possibile individuare
a priori tutte le proprietà descrittivamente rilevanti in relazione
a quel caso generico; perché qualunque bilanciamento si fonda
su un insieme di assunzioni teoriche ed empiriche che sono necessariamente
fallibili, cioè che potranno in futuro essere falsificate,
di modo che nemmeno in condizioni epistemiche ideali sarebbe possibile
identificare un insieme di assunzioni teoriche ed empiriche che mai
nessuno scienziato metterà in discussione.
Infine, la teoria di Alexy è definibile come pragmatica perché
l'autore ritiene opportuno e ragionevole che i giudici ordinari e
costituzionali individuino gerarchie assiologiche tra principi del
diritto (in competizione) che siano mobili, cioè relative soltanto
ad alcuni casi (generici) di conflitto tra principi. In altri termini,
in presenza di risorse temporali ed economiche limitate, è
opportuno che il giudice non risolva, con una singola decisione, tutti
i casi di antinomie tra due principi costituzionali in competizione;
piuttosto, è opportuno che individui una relazione di precedenza
di un principio sull'altro soltanto in relazione ad alcuni casi in
cui i due principi confliggono.
Il saggio di Francesco Biondo affronta, invece, il tema del conflitto
tra valutazioni consequenzialiste e deontologiche di un'azione o di
una norma. Le teorie dei diritti sono sempre state considerate, tradizionalmente,
esempi di teorie deontologiche della morale. Teorie deontologiche,
che si sono spesso distinte, come quella di Nozick, per il carattere
assoluto o indefettibile attribuito a determinati diritti, soprattutto
diritti di libertà e di proprietà, diritti da tutelare
ad ogni costo, indipendentemente dalle conseguenze, in tema di sacrificio
di altri diritti individuali o collettivi, che tale tutela ad oltranza
possa comportare. In tal senso, l'autore contrappone alla teoria strettamente
deontologica di Nozick, quella di Sen, il quale rifiuta un simile
esito e propone una teoria morale moderatamente deontologica, una
teoria cioè che riconosce l'esistenza di alcune pretese intangibili,
ma che è ugualmente attenta alle conseguenze. Sen nega, in
particolare, che il diritto di proprietà possa considerarsi
come una pretesa assoluta o indefettibile. Le conseguenze, tuttavia,
possono essere valutate in modo differente secondo i diversi ruoli
degli attori coinvolti o secondo le loro concezioni morali.
I saggi di Luis Prieto Sanchís e di Roberto Bin affrontano
il tema del bilanciamento dal punto di vista del ruolo che esso svolge
nelle operazioni interpretative e, in genere, nel sindacato di costituzionalità
operato dalla Corte Costituzionale.
Prieto Sanchís sottolinea che il bilanciamento tra principi
costituzionali è ormai da tempo divenuto parte del giudizio
di ragionevolezza o proporzionalità (proporcionalidad) effettuato
dalla Corte Costituzionale. Giudizio di proporzionalità che,
con grande chiarezza concettuale, l'autore suddivide in quattro fasi.
In una prima fase la Corte Costituzionale valuta se una legge non
sia totalmente arbitraria, cioè se la legge abbia, innanzitutto,
uno scopo razionale, e se tale scopo o ratio costituisca un fine costituzionalmente
legittimo. Per fine costituzionalmente legittimo deve intendersi,
sempre che si voglia lasciare un margine di discrezionalità
al legislatore, qualunque scopo o principio che non sia apertamente
proibito dalla Costituzione o del tutto incoerente con i principi
e valori da essa tutelati.
Il secondo momento del giudizio di ragionevolezza comprende la valutazione
della congruenza dei mezzi apprestati dalla legge rispetto ai fini,
costituzionalmente legittimi, che essa si prefigge. In altri termini,
la Corte dovrebbe valutare, sulla base di un insieme di conoscenze
teoriche ed empiriche disponibili al momento della decisione, se la
legge mette in campo dei mezzi strumentalmente idonei al raggiungimento
dei suoi scopi.
Nella terza fase del giudizio di proporzionalità - cd giudizio
sulla necessità del provvedimento legislativo - la Corte Costituzionale
dovrebbe valutare se esiste un altro mezzo, alternativo rispetto a
quello offerto dalla legge oggetto del sindacato, che sia ugualmente
idoneo a tutelare il bene costituzionale in questione e che sacrifichi
in misura inferiore altri valori o principi costituzionali.
Infine, l'ultima fase del giudizio di ragionevolezza comprende il
c.d. giudizio di proporzionalità in senso stretto, quando la
Corte valuta se la legge operi un ragionevole bilanciamento tra principi
costituzionali in conflitto tra loro. Se, in altri termini, la lesione
o il sacrificio imposto ad un valore o ad un principio di rilevanza
costituzionale al fine di tutelare un altro bene costituzionalmente
legittimo non sia eccessivo o irragionevole. In questo caso, la Corte
dovrebbe stabilire quale gerarchia assiologica - o insieme di gerarchie
- tra principi costituzionali in conflitto sia ragionevole o adeguata.
Una volta riconosciuto che il giudizio di proporzionalità,
soprattutto nelle ultime due fasi, ha carattere valutativo, la tesi
sostenuta dall'autore è che il giudizio di ragionevolezza potrebbe
essere interpretato come espressione di una particolare concezione
dei rapporti tra legge e costituzione, che si ponga come un giusto
equilibrio tra due concezioni estreme e inaccettabili della costituzione.
La prima afferma che la costituzione impone un limite al potere legislativo
che è, in via principale, di carattere procedurale e solo in
via marginale di carattere sostanziale. La seconda concezione afferma
che la costituzione è un programma politico-ideologico, un
insieme di fini e principi che il legislatore ha il dovere di realizzare,
fini e principi il cui contenuto spetta alla volontà della
Corte specificare e determinare di volta in volta.
Ora, secondo l'autore, né l'una né altra concezione
sono ammissibili. La prima perché la costituzione è,
in via principale, un insieme di fini e principi di carattere sostanziale,
per lo più in contrasto tra loro e dunque bisognosi di essere
bilanciati. La seconda perché, se l'autonomia del legislatore
è ancora un valore, bisogna concepire tali finalità
come un insieme di limiti, una cornice, all'interno della quale il
legislatore esercita una determinata discrezionalità, salvo
ridurre il legislatore a mero esecutore della volontà della
costituzione o, peggio, del giudice delle leggi.
Bin sottolinea come il giudizio di ragionevolezza operato dalla Corte
Costituzionale non sia affatto un fenomeno nuovo; esso si avvale,
infatti, delle medesime strutture argomentative utilizzate dalla giurisprudenza
e dai giuristi nell'attività di interpretazione della legge.
Ad esempio, il giudizio di ragionevolezza si articola principalmente,
oltre che nel giudizio di uguaglianza e nel giudizio di congruità
dei mezzi apprestati dalla legge rispetto ai fini che questa si prefigge,
nel bilanciamento degli interessi o dei principi confliggenti Ora,
il bilanciamento tra interessi o principi rappresenta il cuore dell'attività
interpretativa di giudici e giuristi, sia nell'attività di
ricostruzione della ratio di una regola iuris, sia nell'attività
di scelta di un principio metodologico dell'interpretazione, cioè
di un ordine di priorità che determini quali canoni dell'interpretazione
(ad esempio l'argomento del significato letterale, l'argomento della
conformità ai principi del diritto, ecc
) debbano essere
utilizzati in via prioritaria e quali canoni debbano essere utilizzati
solo dopo che l'uso dei primi sia stato infruttuoso.
In ultima analisi, la tesi di Bin è che la ragione ultima che
(spiega e) giustifica, a livello normativo, il ricorso da parte del
giudice ordinario alla Corte tramite il sindacato di ragionevolezza
sulla legge è la necessità di costruire, a partire dall'insieme
delle disposizioni, spesso disordinate e disorganiche, emanate dal
legislatore, un sistema di norme che sia il più possibile coerente
e razionalmente accettabile. Il ricorso al giudizio di ragionevolezza
si rende necessario quando il giudice si imbatte in disposizioni che
non sono più aggirabili o 'aggredibili' con i tradizionali
strumenti dell'interpretazione; perché ogni legge, per quanto
possa essere sensata e pienamente giustificata per la normalità
dei casi, ha un grado ineliminabile di irragionevolezza, in quanto
è sempre possibile trovare almeno una circostanza in cui le
classificazioni operate dal legislatore risultano irragionevoli. Le
leggi, infatti, per loro natura, calibrano la loro disciplina sulla
normalità dei casi, sull'id quod plerumque accidit, e ad esse
non può essere richiesto di inseguire la non raggiungibile
varietà del concreto.
Un'analisi di alcuni casi paradigmatici di bilanciamento tra differenti
principi normativi in competizione è offerta nel saggio di
Giorgio Pino e in quello di Giacomo Calzolari e di Giovanni Immordino.
Il saggio di Pino offre una ricostruzione attenta e rigorosa, dal
punto dogmatico e costituzionalistico, di una nozione piuttosto complessa,
quella dei 'diritti della personalità'. Categoria all'interno
della quale ricadrebbero figure quali, ad esempio, il diritto al nome,
all'identità personale, all'identità sessuale, nonché
alcuni diritti riconducibili al (rectius ad un possibile) concetto
di 'privacy', cioè il diritto di mantenere il controllo sulle
proprie informazioni e di determinare le modalità di costruzione
della propria sfera privata. Com'è evidente, si tratta di diritti,
non importa se sanciti espressamente a livello legislativo o se di
origine giurisprudenziale, la cui costruzione/interpretazione è
necessariamente il risultato di un bilanciamento con altri diritti
o principi, ad esempio il diritto alla libertà di espressione
e di informazione. In tal senso, dopo aver offerto una definizione
dei c.d. 'diritti di personalità', Pino affronta tre questioni
piuttosto delicate: la prima relativa alle differenti concezioni -
moniste o pluraliste - che la dogmatica e la giurisprudenza offrono
di tale concetto, la seconda se tali diritti possano, o debbano avere,
avere rilevanza costituzionale, essendo molti di essi non espressamente
sanciti nella costituzione. Infine, Pino analizza criticamente il
contributo dell'analisi economica del diritto nel panorama delle teorie
dei diritti della personalità, con particolare riferimento
al rapporto conflittuale tra privacy e libertà di espressione/informazione.
Il saggio di Calzolari e Immordino affronta il problema relativo all'opportunità,
dal punto di vista politico ed economico, della coltivazione e della
commercializzazione degli OGM (prodotti geneticamente modificati),
cercando, con grande equilibrio, di far luce su una controversia da
anni ormai al centro di un dibattito che ha investito organismi nazionali
e internazionali, sia di carattere legislativo che giudiziario. Il
saggio costituisce un esempio paradigmatico di un bilanciamento tra
differenti principi e valori in gioco. Innanzitutto, il principio
che tutela la salute umana, messo in pericolo dall'incertezza in merito
agli effetti, a volte irreversibili, sull'uomo e sull'ambiente che
il consumo di OGM potrebbe implicare. Dall'altro lato, valori in gioco
sono il maggiore rendimento economico che deriva dalla coltivazione
OGM e, non sembri un paradosso, il principio che tutela l'ambiente.
La coltivazione e la commercializzazione degli OGM, infatti, potrebbe
portare alcuni benefici all'ambiente, visto la minor necessità
di utilizzo di numerosi pesticidi altamente inquinanti, nonché
un incremento dell'utilità economica collettiva, vista la possibilità
di produrre i medesimi beni, riso o soia ad esempio, a costi molto
più bassi. Il che potrebbe non solo aumentare i profitti dei
produttori, ma soprattutto abbattere i prezzi dei beni stessi.
In tal senso la soluzione suggerita dagli autori al fine di bilanciare
i numerosi interessi in gioco risulta piuttosto equilibrata e convincente.
Il (meta)principio fondamentale che dovrebbe orientare il bilanciamento
è il principio di precauzione, principio espressamente accettato
da un recente trattato internazionale, il Biosafety Protocol, non
ratificato dagli Stati Uniti, secondo il quale: "l'assenza di
certezza, data la nostra attuale conoscenza scientifica, non deve
posporre l'utilizzo di misure volte a prevenire il rischio di un danno
grande ed irreversibile all'ambiente, ad un costo accettabile".
Un'importante conseguenza, in caso di controversie giuridiche internazionali,
sarebbe che è compito dei paesi che producono e sostengono
i prodotti in questione dimostrare che essi sono sicuri.
Un compromesso ragionevole potrebbe prevedere un processo a due stadi,
culminante nella commercializzazione degli OGM, ma contestualmente
nell'etichettatura dei prodotti medesimi, di modo che il consumatore
possa distinguere i beni che contengono geni modificati da quelli
tradizionali. Una prima fase in cui, grazie alla maggiore capacità
di acquisire e processare informazione che caratterizza il decisore
pubblico, quest'ultimo avrebbe il compito di applicare il principio
di precauzione, vietando, da un lato, la coltivazione e/o la commercializzazione
degli OGM e incentivando o commissionando, dall'altro lato, studi
e ricerche che possono trarre profitto anche dall'esperienza di altri
paesi, ad esempio gli Stati Uniti, in cui i beni geneticamente modificati
sono già ampiamente coltivati e consumati. In una seconda fase,
qualora, ad esempio, il rischio di danni alla salute e all'ambiente
fosse notevolmente diminuito, sarebbe opportuno trasferire sul consumatore
l'onere di sopportare l'incertezza residua, dandogli la possibilità
di scegliere, attraverso l'etichettatura, se acquistare prodotti che
contengono OGM. |
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