INCLUSIVE POSITIVISM: ALCUNE CRITICHE*

Susanna Pozzolo

1. E' stato scritto che gli orizzonti della teoria giuridica sono confusi ed è diffuso uno stato di perplessità. Sono venuti meno i tempi delle "grandi divisioni"?
Muovendo dalla "grande divisione" fra giusnaturalismo e giuspositivismo io scelgo il secondo; oggigiorno, però, questa scelta non rappresenta affatto una soluzione, anzi. Quale giuspositivismo? La domanda, certo, può anche apparire oramai retorica, ma d'altronde è sempre più fondata: positivismo inclusivo o positivismo esclusivo o positivismo negativo o positivismo positivo o soft positivism o…? Dinanzi alla varietà di positivismi possibili, resta irrisolta la questione circa quale di essi, sempreché almeno uno ve ne sia, si riveli più adatto a dar conto dei tratti fondamentali degli ordinamenti giuridici delle democrazie costituzionali occidentali.
Il tratto 'costituzionalista' che caratterizza questi sistemi (nozione che non può essere qui approfondita[1] ) sembra una delle ragioni principali per sostenere l'inadeguatezza del positivismo giuridico tradizionalmente inteso. Alcuni propongono di abbandonare il giuspositivismo tourt court, altri cercano di riformularlo, specificarlo, cambiarlo. Vorrei offrire, allora, alcuni argomenti per questo dibattito, svolgendo alcune riflessioni sul positivismo inclusivo.
L'inclusive positivism è una delle proposte teoriche che maggiore influenza ha esercitato nel movimento giuspositivista degli ultimi anni. La sua caratteristica principale risiede nel sostenere che il giuspositivismo resta coerente con se stesso pur includendo standards morali tra quelli considerati dalla regola di riconoscimento. Il positivismo giuridico di cui si tratta è quello hartiano. Quest'ultimo è solitamente considerato nell'ambito di quello che Bobbio ha denominato positivismo giuridico come metodologia. Esso corrisponde a un atteggiamento nei confronti del diritto o, meglio, è un modo per delimitare l'oggetto della ricerca del giusfilosofo, e contemporaneamente anche un modo per assegnare una funzione alla ricerca. Per un verso, infatti, la netta demarcazione fra diritto reale e diritto ideale, ossia fra diritto come fatto e diritto come valore, rappresenta una delimitazione di campo, individuando nel primo l'oggetto dell'indagine, per altro verso, la stessa demarcazione implica l'adozione di un atteggiamento descrittivo, avalutativo del giusteorico, che impedisce la confusione fra le proprie preferenze etiche e l'analisi dell'oggetto diritto. A partire da questa concettualizzazione, i teorici giuspositivisti hanno in vario modo negato la connessione concettuale fra diritto e morale, così rivendicato l'aspetto scientifico insito in questo tipo di positivismo. Orbene, il positivismo inclusivo, in particolare nella configurazione offertane da Wilfrid J. Waluchow[2] , afferma che anche la morale può essere uno fra i criteri accolti nella regola di riconoscimento hartiana, senza che ciò comporti l'abbandono della tesi della separazione.


2. Waluchow introduce alla sua opera sul positivismo inclusivo scrivendo che la teoria giuridica si trova in uno stato di perplessità. I tradizionali confini tra opposti punti di vista si sono offuscati. Le parole usate sono effettivamente significative.
L'argomentazione avanzata da Waluchow - per sostenere la tesi secondo cui la morale può giocare un ruolo nella determinazione dell'esistenza, del contenuto e del significato delle norme valide[3] - fa leva soprattutto su due rilevazioni di fatto: i) le corti si appellano a principi morali per risolvere e giustificare le loro decisioni, senza che questo costituisca creazione di nuovo diritto; ii) le costituzioni fanno esplicito riferimento a principi e valori morali condizionando l'attività legislativa, senza che questo determini un abbandono della tesi della separazione fra diritto e morale.
Non è difficile notare che la scelta argomentativa di Waluchow tiene conto delle critiche e dei suggerimenti dell'opera dworkiniana. La sua proposta però non vuole essere un abbandono del positivismo giuridico, al contrario dovrebbe rappresentare solo il completamento o l'esplicitazione di alcuni aspetti che sarebbero già presenti in esso, in particolare nel giuspositivismo hartiano. Il positivismo inclusivo, infatti, mira a una riformulazione o, forse, solo a un chiarimento della nozione di regola di riconoscimento[4] : quella regola accettata e usata dai cittadini e operatori giuridici per identificare il diritto valido[5] . L'introduzione della morale fra le fonti del diritto non rappresenterebbe la base per una "deriva" giusnaturalista del positivismo, poiché, come scrive Waluchow, se la morale gioca o meno un ruolo nel riconoscimento del diritto valido è un dato contingente determinato dalla formulazione di ogni singola regola di riconoscimento. Riconfigurata in questo modo la regola, verrebbero meno gran parte delle critiche mosse da Dworkin a The Concept of Law, poiché essa sarebbe in grado di "catturare" tutti gli standard giuridici.
Da più parti è stato rilevato che l'inclusione della morale fra le fonti del diritto determinerebbe un'incertezza in grado di dissolvere la stessa funzione della regola di riconoscimento. Waluchow, però, ha sostenuto che la paventata incertezza è un'esagerazione. Sarebbe esagerato il contrasto tra la certezza ottenibile dalle regole la cui validità è determinata solo in funzione del "puro pedigree"[6] e la presunta instabilità che si incontrerebbe se la validità o il contenuto di una norma fossero, alcune volte, parzialmente basati sulla sua conformità a principi morali[7] . L'autore ricorda come spesso vi siano controversie anche sull'applicabilità e sull'interpretazione delle regole "con il pedigree". La stessa teoria hartiana dell'open texture[8] indicherebbe l'ineliminabile indeterminatezza del linguaggio giuridico. Inoltre, Hart stesso nel Postscript afferma che la regola di riconoscimento può includere criteri di validità che richiedano la conformità a principi e valori morali[9] .


3. Tra le critiche e i commenti che sono stati rivolti all'opera di Waluchow, Eleni Mitrophanous[10] ritiene che possono essere individuati almeno due tipi di positivismo inclusivo: I) un primo tipo considera che la regola di riconoscimento può richiedere conformità a principi morali, ma, una volta identificata la norma come giuridica, ogni rinvio alla morale sarà di tipo esterno, ossia tale rinvio non avrà l'effetto di incorporare il principio morale all'interno del diritto. II) Un secondo tipo si caratterizza per la tesi secondo cui la morale, oltre a figurare nei criteri di identificazione del diritto valido, può giocare un ruolo anche nell'identificazione del suo contenuto. In tal modo, sostiene Mitrophanous, la morale resta inclusa nel diritto, non solo quando ad essa faccia rinvio la regola di riconoscimento, ma anche quando a fare tale rinvio siano altre regole, perché questi principi morali trovano il loro riconoscimento in una pratica giuridica di accettazione. In quest'ultimo caso il rinvio alla morale sarà di tipo interno. Grosso modo, la tipologia potrebbe essere esemplificata ricordando come opera e come può essere ricostruito il diritto nazionale quando in esso viene fatto un rinvio a una norma di un ordinamento diverso: la norma richiamata, ad esempio, viene applicata, ma non entra a far parte dell'ordinamento, prima ipotesi; la norma richiamata viene applicata ed entra a far parte dell'ordinamento, seconda ipotesi.
In sostanza, secondo la prospettiva di Mitrophanous, negare il ricorso alla morale non significherebbe escludere che il diritto possa rinviare in casi particolari a criteri morali: ad esempio, di una regola del tipo "Sono vietate le discriminazioni ingiuste" si potrà dire che: a) è possibile predicare la validità della regola, perché è stata emanata dall'organo legislativo seguendo le dovute procedure; b) il contenuto della regola è "Sono vietate la discriminazioni ingiuste". Per determinare il significato specifico di "discriminazioni ingiuste" si potrà ricorrere anche ad argomenti morali, ma non per questo la morale sarà necessariamente inclusa nel diritto, anzi, il rinvio che ad essa verrebbe fatto sarebbe del tutto contingente.
La critica al positivismo inclusivo (anche quella di Mitrophanous) si incentra principalmente sulla certezza e sull'indeterminatezza del diritto. L'inclusione di criteri di validità che comportino rinvii interni alla morale sarebbe incompatibile con la funzione e l'esigenza di identificare con certezza le regole giuridiche valide del sistema[11] e la regola di riconoscimento hartiana è introdotta proprio al fine di limitare l'incertezza dei sistemi primitivi composti di sole regole primarie. L'incertezza sollevata può essere riferita a due questioni differenti: 1) quella sui criteri di validità e 2) quella sul soddisfacimento di tali criteri. Se l'introduzione di criteri morali determina un'incertezza sull'individuazione dei criteri stessi, parrebbe doversi rilevare che non vi è alcuna pratica sociale di riconoscimento. In tal caso la regola di riconoscimento cui si riferisce il positivismo inclusivo non è una regola sociale. Quest'ultima, infatti, per essere tale richiede che coloro che usano il diritto lo riconoscano in base agli stessi criteri e pare difficile dire che c'è una pratica sociale di riconoscimento se i criteri stessi sono controversi. Mitrophanous afferma che per essere contenuto in una regola sociale il rinvio alla morale dev'essere di tipo esclusivamente esterno, poiché altrimenti dissolverebbe la funzione della regola: un criterio del tipo "Le regole giuste sono diritto valido", sebbene possa essere accettato da tutti, difficilmente si potrà dire che tutti sono d'accordo su quali regole siano giuste: il criterio della giustizia come tale è completamente vuoto. Questa sarebbe l'incertezza (2), l'incertezza circa il soddisfacimento dei criteri di validità, per cui non sarebbe possibile stabilire se una regola appartiene o no al sistema e, dunque, se quella regola è o no diritto valido. Tale criterio, però, potrebbe non determinare l'incertezza (1), ossia non renderebbe incerta l'individuazione del criterio di validità. Jules L. Coleman[12] , ad esempio, afferma che un criterio come quello indicato non sarebbe affatto vuoto. Una volta, infatti, che la regola di riconoscimento venga intesa come regola semantica, essa sarebbe rinvenibile nell'uso diffuso e costante del criterio della giustizia da parte dei giudici. E' certo, però, che la tesi di Coleman presenta alcune difficoltà nella prospettiva giuspositivista. Non mi pare, difatti, soddisfatta l'esigenza che soggiace all'introduzione della regola di riconoscimento se i giudici identificano norme diverse come diritto, poiché hanno differenti opinioni circa quali 'oggetti' soddisfino il criterio di validità "secondo giustizia", sebbene quegli stessi giudici coincidono nell'uso dello stesso criterio, ossia si ritrovino d'accordo nell'identificazione del criterio di validità. Accettare la tesi di Coleman, e quindi pensare alla regola di riconoscimento come l'uso "nominale" dello stesso criterio in mancanza di un accordo circa il contenuto del criterio stesso non mi pare una soluzione adeguata. Se si osservano le implicazioni di tale tesi ponendosi prima dal punto di vista esterno e poi da quello interno si potrà notare quanto segue.
Un osservatore potrà notare che i partecipanti adottano una pratica comune nel considerare certe regole come norme giuridiche, rilevando che i partecipanti considerano diritto ciò che i giudici decidono che lo sia. L'osservatore potrà intervistare i giudici e da ciò ricavare la norma secondo cui "È diritto in C ciò che i giudici ritengono che il legislatore abbia emanato secondo giustizia", ma non potrà ricavare la norma "È diritto in C ciò che il legislatore ha emanato secondo giustizia". Questo a meno che i giudici non condividano la stessa nozione di giustizia e dunque la stessa morale. Il fatto è che lo stesso Coleman avverte di riferirsi alla morale nel suo significato di universale (ossia come insieme di principi riguardanti il comportamento umano, considerati giusti in sé, senza alcun rapporto con ciò che gli esseri umani credono sia bene e male - si veda il punto 4.) e allora ci si potrebbe aspettare che egli aderisca chiaramente all'oggettivismo morale, ma è lui stesso ad avvertire che le persone sono in disaccordo su ciò che è morale. La soluzione di Coleman appare, dunque, insoddisfacente dal punto di vista esterno. Dal punto di vista interno i problemi sembrerebbero ancora più gravi. Il partecipante, infatti, neppure avendo a disposizione ex ante una decisione giudiziale potrebbe sapere cosa è diritto e dunque sapere quale comportamento gli è richiesto, perché ogni giudice potrebbe considerare diritto qualcosa di diverso (a meno di non aderire, ancora una volta, all'oggettivismo morale). La situazione, dunque, parrebbe "pregiuridica": i partecipanti non sarebbero in grado di conoscere i loro obblighi giuridici.
Poiché è un fatto che, se anche vi fossero delle norme morali "vere", i giudici non condividono nella pratica la stessa morale, l'incertezza (2) rende piuttosto inutile la certezza (1).
Al contrario di quanto afferma la critica, il positivismo inclusivo ritiene che l'introduzione della morale possa accrescere la determinatezza del diritto. Esso, infatti, non avrebbe alcun bisogno di aderire alla teoria hartiana dell'interpretazione che, inoltre, dato l'alto numero di casi controversi in cui i giudici deciderebbero discrezionalmente, rappresenterebbe il fallimento del diritto. Il diritto, per contro, sarebbe da considerarsi indeterminato solo quando non offra la risposta corretta: e una volta inclusi i (almeno alcuni) principi morali nel diritto, il giudice non deciderebbe discrezionalmente neppure nei casi controversi, riducendosi così anche l'intrinseca dose di indeterminatezza, giacché il giudice sarebbe limitato nella sua decisione dal porre in essere un'attività di bilanciamento di principi.
La critica, allora, segnala che in questo modo, per la verità, non si potrebbe più distinguere fra diritto determinato e indeterminato, fra diritto completo e incompleto, fra creazione e applicazione di diritto e, se così fosse, il positivismo inclusivo dovrebbe dirsi auto-contraddittorio, poiché non potrebbe svolgere i fini descrittivi per i quali è pensato.


4. Personalmente mi trovo tra i critici del positivismo inclusivo. Sono d'accordo con Waluchow, però, quando rileva lo stato di perplessità e la perdita di un preciso orizzonte della teoria. Propongo allora una prima chiarificazione.
A mio parere va rammentato che il termine 'morale' è polisenso. Se ne possono individuare almeno quattro significati:
a) Morale individuale: consiste in un insieme di principi riguardanti il comportamento umano in rapporto all'idea che ciascuno ha del bene e del male. La morale individuale è storicamente determinata e contingente; essa può essere ricondotta e ridotta a fatti e come tale descritta in termini valutativamente neutrali. D'altronde, però, si può dubitare della possibilità di configurare una morale puramente individuale, come si può dubitare della possibilità di seguire privatamente una regola.
b) Morale positiva, che consiste in un insieme di principi che riguardano il comportamento umano in rapporto all'idea che un determinato gruppo sociale ha del bene e del male. La morale positiva è, come quella individuale, contingente e storicamente determinata; essa è intrinsecamente connessa con una situazione sociale data, può essere ricondotta a fatti descrivibili in modo valutativamente neutrale.
3) Morale concertata. Essa consiste in un insieme di principi, ottenuti attraverso un dibattito intersoggettivo condotto secondo regole predeterminate, che riguardano il comportamento umano in rapporto all'idea che la maggioranza degli uomini ha del bene e del male. La morale concertata potrebbe essere esemplificata richiamando le molteplici dichiarazioni dei diritti dell'uomo, dei diritti del fanciullo e così via, sottoscritte dalla maggioranza degli organismi statali del mondo. Essa è contingente e storicamente determinata, legata allo sviluppo sociale e al livello del dibattito intersoggettivo; essa è positiva in quanto espressa in documenti giuridici o dotati di grande valore, ma non è necessariamente effettiva. Essa piuttosto corrisponde ad un modello normativo cui si deve tendere. Questo tipo di morale è forse la stessa che in letteratura viene chiamata critica.
4) Morale universale. Essa sembrerebbe consistere in un insieme di principi riguardanti il comportamento umano, considerati giusti in sé, senza alcun rapporto con ciò che gli esseri umani credono sia bene e male. La morale universale sarebbe il giusto in sé, in senso astorico e aspaziale. Essa sarebbe indipendente dallo sviluppo sociale e da qualsiasi dibattito intersoggettivo.
Anche il termine 'validità' non è scevro da polisemia. Eugenio Bulygin[13] ha proposto una tipologia di sensi di cui qui se ne terranno in considerazione tre[14] : i) validità di una norma può indicarne la sua esistenza di fatto, ossia la sua esistenza e la sua produzione di effetti nell'àmbito di un gruppo sociale; ii) validità di una norma può indicare la sua appartenenza al sistema giuridico, e in tal caso si afferma che soddisfa i criteri di validità stabiliti dal sistema stesso; iii) validità di una norma può indicare la sua obbligatorietà, per cui una norma può dirsi in tal senso valida quando la sua osservanza è moralmente e giustamente dovuta. Solo i primi due sensi enunciati possono dirsi descrittivi e, difatti, la regola di riconoscimento, che si è detto consiste in una pratica sociale, può dirsi valida in quanto esiste di fatto: produce degli effetti nell'ambito di un gruppo sociale. Le altre regole del sistema giuridico sono valide se appartengono al sistema giuridico: se soddisfano i criteri di validità fissati dalla regola di riconoscimento.


4.1. Quale morale sarebbe inclusa nel diritto? Se si considera la morale individuale si aprirebbe la via alla discrezionalità della funzione giudiziaria: il giudice deciderebbe in base al suo apprezzamento morale, in base al suo personale universo etico. Questo, a sua volta, può condurre a due situazioni alternative: al libero arbitrio del giudice, che implicherebbe una situazione di totale incertezza, incompatibile con l'odierna nozione di legalità (qualcosa di simile alla società primitiva di cui parla Hart in The Concept of Law, ma peggiore, perché vi sarebbero molti giudici mentre nella prima vi è solo Rex). La seconda alternativa implica la considerazione della morale nel senso di positiva. In tal caso, il libero apprezzamento del giudice è mitigato dall'universo etico del gruppo sociale e la discrezionalità giudiziaria sarebbe compatibile con l'odierna nozione di legalità, per cui anche facendo ricorso a convinzioni personali il giudice non decide arbitrariamente (e ha un dovere di argomentazione che consente un certo livello di verificabilità). Se considerata la questione da questo punto di vista, il rinvio operato dal diritto non è alla morale, bensì a standard morali positivizzati, ossia a standard giuridici. Uno standard morale, infatti, una volta positivizzato diviene uno standard giuridico. Questo mi pare consenta di chiarire come la distinzione fra rinvio interno e rinvio esterno alla morale nasca da una confusione che colpisce gran parte della letteratura post dworkiniana che non distingue fra 'enunciati deontici', 'norme' e 'proposizioni normative' e pare, per contro, adottare una nozione confusa di 'enunciato giuridico', del tutto simile a quella dworkiniana, dove le proposizioni normative presentano contemporaneamente caratteristiche ora tipiche delle norme, ora tipiche delle proposizioni, ma fra loro incompatibili[15] .
Se si tiene conto delle distinzioni enunciate è possibile chiarire la confusione presente anche nel positivismo inclusivo. Si isoli la questione dell'identificazione del diritto valido dall'identificazione del suo contenuto. Nel primo caso ci si trova ad analizzare 'enunciati giuridici', ossia testi normativi, la cui validità sarà da stabilirsi verificando che il procedimento della loro emanazione abbia soddisfatto i criteri formali stabiliti dalla regola di riconoscimento; forse in questo consiste il pedigree cui Waluchow si richiama. Questo tipo di attività conoscitiva è la stessa che viene svolta da giudici, da avvocati e da studiosi del diritto. Nel secondo caso ci si trova ad analizzare 'norme', ossia significati di 'enunciati giuridici'. Diversamente da prima, qui occorre prendere in considerazione il ruolo e l'obiettivo che si propone l'interprete, perché quest'attività può condurre a risultati non conoscitivi, ma prescrittivi. Tra i vari punti di osservazione due sembrano particolarmente interessanti: il ruolo e l'obiettivo del giudice e il ruolo e l'obiettivo della dottrina.


4.1.1. Se l'interprete è un giudice, dopo aver individuato il materiale normativo formalmente valido (rispetto del pedigree) e dopo averne selezionato un insieme astrattamente applicabile, egli vaglierà i diversi significati ascrivibili o da altri ascritti a tale materiale, con ciò concludendo la sua attività meramente conoscitiva. A questo punto il giudice sceglierà uno fra i significati individuati, ascrivendo alla disposizione giuridica (o a più disposizioni giuridiche) un significato determinato, e in tal modo individuerà la norma del caso[16] . La scelta normativa potrà essere determinata da fattori diversi: rapporti fra i diversi enunciati giuridici, rapporti con altre norme, uso di massime di esperienza, uso di credenze, convinzioni etiche, e così via. L'operatore giuridico esporrà successivamente in un documento normativo (di solito una sentenza, un'ordinanza) la decisione del caso e argomenterà a favore di essa proponendo la sua ricostruzione normativa. Quest'ultima attività diretta all'individuazione della norma che regola il caso è prescrittiva. Si può ben affermare che qui la morale o alcuni principi etici che il giudice condivide abbiano svolto un ruolo nella scelta. Resta il fatto che il dovere di argomentazione e di giustificazione che il giudice deve assolvere deve trovare il suo fondamento in ragioni giuridiche e in principi giuridici (nella legge) e non in ragioni morali. La decisione giuridica dovrà configurarsi come la sussunzione della fattispecie concreta sotto la fattispecie astratta. Entro questi limiti si può anche parlare di connessione fra diritto e morale positiva; connessione peraltro ammessa dal giuspositivismo metodologico-concettuale. Oggetto d'indagine della dottrina per lo più è il risultato del processo decisionale: la sentenza, l'ordinanza, il documento normativo, che possono essere configurati come l'espressione esterna del processo psicologico del giudice, ma non è affatto certo che questi rispecchino in modo veritiero il ragionamento "interno". Quest'attività d'indagine assume la morale positiva del giudice come oggetto di indagine, come fatto, per cui l'attività torna ad essere conoscitiva.
Se l'interprete è la dottrina (o la scienza giuridica), e se di essa se ne considera il ruolo e l'obiettivo, occorre tener presente un'alternativa: a) una dottrina che si pone compiti descrittivi e svolge un ruolo scientifico; b) una dottrina che si pone compiti prescrittivi e svolge un ruolo normativo. Se l'interprete si pone compiti conoscitivi il suo lavoro sarà terminato dopo aver individuato e vagliato il materiale normativo e i significati ascritti e/o ascrivibili ad esso. In alcuni casi, l'interprete potrà proseguire la sua attività intraprendendo un lavoro di tipo teorico e ricostruendo, ad esempio, un modello di ragionamento giuridico (caso paradigmatico di questo genere di attività è la ricostruzione della motivazione attraverso un sillogismo giudiziale) per meglio esplicitarne alcuni caratteri oppure costruirà altri modelli teorici per esplicitare altre caratteristiche del diritto. Sebbene secondo alcuni quest'attività non sia meramente conoscitiva, giacché comporta una semplificazione della realtà determinata dalla scelta di quegli elementi che saranno ricostruiti nel modello, ritengo che quest'attività teorica è disponibile sia all'uso normativo che a quello descrittivo e in tal caso il modello costruito potrà ben svolgere un'importante funzione esplicativa compatibile con altri modelli descrittivi. D'altronde si potrebbe obiettare che la stessa individuazione del materiale normativo corrisponde all'uso di un qualche modello teorico, sicché da questo punto di vista nessuna descrizione sarebbe davvero tale. Se l'interprete si pone compiti prescrittivi, per contro, dopo aver terminato la prima fase conoscitiva dell'indagine, intraprenderà un'attività simile a quella svolta dal giudice. La differenza sostanziale nel caso della dottrina risiede nel fatto che ad essa non è richiesto di giustificare la scelta normativa in base ad argomenti giuridici e potrà farlo esplicitamente in base ad argomenti morali. La sua unica preoccupazione, tutt'al più, sarà quella di offrire una giustificazione persuasiva per l'uditorio cui si rivolge. Benché in questo caso possa risultare ovvia la connessione fra diritto e morale positiva, di effettiva connessione si potrebbe forse parlare solo qualora l'interpretazione proposta dal giurista fosse accolta dai giudici; ma anche in questo caso il giudice che si trovasse ad accoglierla dovrebbe riformularla fondandola su argomenti meramente giuridici.
In tutti questi casi, quando un sistema giuridico presenta standard del tipo "È tutelato il diritto alla libera espressione del proprio pensiero", non viene per ciò stesso a configurarsi un rinvio alla morale, ma piuttosto un rinvio a standards giuridici che precisano il significato della locuzione 'libera espressione del proprio pensiero', escludendone, ad esempio, il proferimento di insulti. È chiaro che tale significato sarà determinato dalle credenze dei partecipanti; credenze che sono connesse alle loro concezioni etiche. Diritto e morale positiva presentano pertanto delle connessioni, che risultano evidenti anche guardando a formulazioni normative del tipo "dovuta diligenza", "buon padre di famiglia", "ingiusta discriminazione", il cui significato è determinato in base a canoni giuridici che variano nello spazio e, soprattutto, nel tempo, correlativamente al mutare delle credenze morali e politiche dei partecipanti.
La connessione fra diritto e morale positiva non è negata dal giuspositivismo neppure da quello hartiano e non comporta ripercussioni sulla tesi della separazione. La morale positiva, infatti, può essere considerata come un fatto, passibile di essere descritta al pari di qualunque altro fatto. La tesi della separazione semplicemente pretende affermare la possibilità di individuare il diritto senza fare ricorso a criteri morali che siano assunti come valore, ma ciò non esclude che possano essere analizzati come fatti. Se anche la morale è pensata come un insieme di fatti è determinabile in modo avalutativo, così come lo è il diritto positivo.
Ma i criteri morali cui si riferisce il positivismo inclusivo, a mio parere, possono solo appartenere alla morale universale e non alla morale positiva e, quindi, essi non sono assunti come fatti, bensì come valori. In tal caso, però, questo positivismo non mi pare soddisfi le esigenze per le quali è pensato. Poiché, o la morale universale si trasforma in positiva o il diritto non sarebbe altro che uno strumento della sua applicazione. Se così fosse: nel primo caso, una teoria che sostenesse la necessaria connessione non sarebbe altro che una forma di positivismo ideologico; nel secondo caso, essa negherebbe positività al diritto, considerabile solo come valore e/o tutt'al più come applicazione mediata di valori universali[17] . Resta chiaro che il rinvio alla morale universale determinerebbe una connessione fra diritto positivo e morale che non sarebbe di tipo contingente, bensì necessario. Il contenuto significativo delle regole sarebbe determinato una volta per tutte, indipendentemente dalle credenze, dalla storia, dalle decisioni degli operatori giuridici e da qualsivoglia altro fattore. Se il rinvio è alla morale universale il significato di un criterio del tipo "È diritto ciò che il legislatore emana secondo giustizia" non sarebbe vuoto, perché rinvierebbe ad una nozione di giustizia "vera", universale appunto. Ma in tal caso, il criterio, sebbene non vuoto, non mi pare sarebbe di alcuna utilità: giacché il contenuto del diritto sarebbe inconoscibile. La morale universale, per definizione, non può essere ridotta a fatti, non può essere positivizzata, essa è qualcosa di meramente normativo che non ha alcun rapporto con il mondo empirico. Dunque, una regola di riconoscimento che includesse il rinvio alla morale universale sarebbe una sorta di rinvio al diritto naturale.
Questo pare essere il punto debole del positivismo inclusivo: sembra essere la morale universale a svolgere un ruolo nell'individuazione del diritto e del suo contenuto. Se così stanno le cose, però, il positivismo inclusivo utilizza un criterio che non consente di individuare il contenuto del diritto e si situa fuori dal positivismo giuridico metodologico.
A me pare che, per aggiungere qualcosa di nuovo, il positivismo inclusivo esige l'oggettivismo morale. Qualora non si aderisse a tale forma di oggettivismo, la tesi indicherebbe che qualsiasi utilizzo di standards politici o morali da parte dei giudici sarebbe mero esercizio della discrezionalità. L'unico modo per il positivismo inclusivo di distinguere fra diritto determinato e diritto indeterminato è affermare che il diritto offre risposte giuste, dunque aderire all'oggettivismo morale. Il positivismo inclusivo non può, infatti, pretendere che principi e valori morali siano criteri di validità per determinare il contenuto delle regole se non ammette che quei principi e valori siano oggettivi.
Sebbene il Postscript di Hart sia ambiguo a questo riguardo, ciò che è rilevante notare è che i giuristi usano una nozione di validità come appartenenza più articolata del pedigree cui si richiama Waluchow. I giuristi (giudici e dottrina), infatti, usano due sensi di 'validità' uno formale e uno materiale che solo insieme, si può dire, formano il pedigree della regola. Quando i giuristi parlano di validità formale fanno riferimento all'assenza di vizi procedurali: questa nozione di 'validità' è propria degli atti normativi, ma non è propria delle regole. Quando i giuristi parlano di validità materiale, invece, si riferiscono a regole, ossia a significati di enunciati giuridici: una regola sarà considerata materialmente valida quando non incompatibile con regole gerarchicamente superiori[18] . Questi due criteri sono tra loro indipendenti, ma gerarchicamente ordinati; di modo che il criterio materiale è sovraordinato a quello formale: una norma materialmente valida e formalmente invalida sarà ritenuta comunque parte dell'ordinamento, mentre una disposizione formalmente invalida non potrà farne parte[19] . La regola di riconoscimento pretende di considerare tutti i criteri di riconoscimento: materiali e formali. Waluchow, però, sembrerebbe ritenere che una regola di riconoscimento siffatta non sarebbe, nella prospettiva dworkiniana, una regola giuspositivista, poiché essa farebbe riferimento al contenuto della regola[20] . L'obiezione, invero, è fondata solo se il riferimento ai criteri materiali implicasse un riferimento alla morale universale; diverso è, se si considera la morale positiva, che è riducibile a fatti osservabili e descrivibili in modo valutativamente neutrale.


5. È ben vero che le costituzioni contemporanee hanno accolto un gran numero di principi etici, positivizzandoli nelle loro disposizioni; principi che condizionano l'attività legislativa e la validità delle regole del sistema. È altrettanto vero che la maggioranza delle decisioni prese dalle corti costituzionali si riferisce a questioni di validità materiale, piuttosto che a questioni di validità formale. Così, se quest'ultima tende a presentarsi rigida e non graduabile (o la regola è formalmente valida o non lo è), diverso sarebbe per la nozione di validità materiale che si presenta flessibile e graduabile e si presta a essere riformulata in modo da includere la morale nel diritto. La "grande divisione" fra questi due tipi di validità ha agevolato la nota critica dworkiniana e ha posto in ombra che tali nozioni sono solo due faccie di una medesimo "oggetto". Il "pedigree" in uso fra i giuristi è costruito attraverso l'uso di entrambi i criteri di validità, esso evita cadute formalistiche e limita altresì la discrezionalità giudiziale: sebbene sarà un giudice a determinare il significato della disposizione, quel significato non potrà essere uno qualunque, ma solo uno di quelli contenuti nella cornice in qualche modo limitata dalle regole d'uso di un linguaggio determinato.
L'inclusive positivism aderisce alla grande divisione della validità, sebbene solo nel tentativo di superarla includendo la morale nel diritto. A me pare, però, che l'operazione non riesca.
Il positivismo inclusivo, infatti, da un lato, nel solco della tradizione, afferma che il diritto è una pratica sociale ma, dall'altro, afferma che la regola di riconoscimento può includere standards morali per individuare il diritto valido e il suo contenuto. Per un verso, quindi, esso sembra condividere che il diritto, in quanto pratica sociale, dipende dall'uso che di esso se ne fa, ma, per altro verso, sembra ritenere che, in alcuni casi, ciò che il diritto "è" dipende dalla morale. Già si è detto che se si trattasse della morale positiva, allora il positivismo inclusivo sarebbe una mera ripetizione di tesi già note ed sarebbe criticabile perché aumenta la confusione teorica; altrimenti, esso afferma esservi una connessione fra diritto e morale universale, e ciò comporta le difficoltà sopra evidenziate.
Il sospetto è che anche i fautori del positivismo inclusivo, come molti altri giusfilosofi negli ultimi anni, si siano fatti ammaliare dal dilagante imperialismo della morale; così, per un verso, ciò che viene proposto come teoria descrittiva si rivela o tende a rivelarsi una politica o una meta-politica del diritto e, per altro verso, viene dimenticato che il diritto è una pratica sociale e non se ne traggono le conseguenze. Mi chiedo: perché si pretende di includere la morale nel diritto? Fra i diversi motivi, teorici e politici, mi pare che uno dei principali sia quello di voler riconoscere una rilevanza pratica al diritto giuspositivisticamente considerato; rilevanza che sembra essere stata, almeno teoricamente, incrinata dalle critiche dworkiniane e che non può essere rintracciata nella sola autorità. Non sono sicura che tra i compiti del giuspositivismo vi sia anche la risposta a questo tipo di domanda, ma ammettiamo di sì. La risposta inclusiva, allora, non mi pare soddisfacente, poiché finisce per offrire solo una diversa versione della sonderfallthese alexiana e, credo, rischi davvero di fondare l'irrilevanza pratica del diritto[21] . Cosa significa, infatti, che il diritto ha fonti sociali? Semplicemente che esso è prodotto da atti umani, e così la sua produzione come la sua identificazione ha un'origine sociale, che si radica nel tempo e nella comunità dei suoi utenti. Non mi pare difficile avvedersi che esso si compone di una dimensione direttiva (tipicamente riconosciuta dal positivismo giuridico più tradizionale) e di una dimensione giustificativa (posta in risalto dal positivismo inclusivo); la prima si esprime nel riconoscimento dell'autorità e la seconda nel riconoscimento della protezione e nella promozione di certi beni condivisi dalla comunità di riferimento. Se il diritto ha una rilevanza pratica, mi pare si debba riconoscere che essa è connessa ad entrambe le dimensioni, negando quindi che possa essere dovuta solo all'autorità o solo alla moralità, negando quindi "un'altra grande divisione". Se il diritto ha rilevanza pratica, quest'ultima è una rilevanza meramente giuridica. E' chiaro, poi, che la giustificazione del diritto faccia appello anche al riconoscimento di certi beni e valori e, così facendo, spesso faccia appello al "giusto" e alla morale universale, come se si fossero scoperti i criteri per la sua identificazione. A fronte dei discorsi persuasivi, però, mi pare necessario tener presente sia la dimensione direttiva del diritto sia, e soprattutto, la chiarezza concettuale nell'analisi del diritto. E, quindi, quale morale farebbe parte del diritto?
L'uso dell'argomentazione morale aumenta la persuasività del discorso e sembra offrire certezze altrimenti improponibili, e così suscita "buone" emozioni nel lettore; ma di quale morale stiamo parlando?
L'argomentazione del positivismo inclusivo, a mio parere, non è fruttuosa per la prospettiva giuspositivista e, al contrario, ritengo che altrimenti vada spiegata la rilevanza pratica del diritto, sempreché al diritto si voglia riconoscere rilevanza pratica.